1. La classificazione
tradizionale dell’agente provocatore
A distanza di meno di un mese la medesima sezione
della Corte di Cassazione ha avuto modo di affrontare il tema della
utilizzabilità delle acquisizioni probatorie ottenute mediante
attività sotto copertura in due modi diametralmente opposti,
rendendo palesi le difficoltà interpretative e la diffusa
incertezza operativa, aprendo la strada ad un auspicabile prossimo
intervento delle Sezioni Unite.
Le cause di tanta contraddizione possono essere
diverse; non ultima la costante abitudine legislativa di introdurre
nell’ordinamento innovazioni dettate da comprensibili esigenze pratiche
di politica criminale senza tenere in debito conto l’impianto generale
penalistico, sostanziale e processuale.
Il tema delle indagini che si svolgono utilizzando
lo strumento che è stato catalogato dalla dogmatica tradizionale
con la denominazione di agente provocatore si colloca al centro di
un’area di riferimenti normativi e culturali di primaria importanza,
non soltanto nella regolamentazione del rapporto fra garanzia di
libertà e autodeterminazione della persona ed esigenze di
repressione e prevenzione dei reati, ma anche per la definizione dei
confini esistenti nel delicato rapporto tra attività
investigativa e controllo giurisdizionale e quindi, tra organi di
polizia e ufficio del pubblico ministero.
In realtà, la stessa definizione di agente
provocatore non appare sempre rispondente a descrivere le nuove forme
di attività investigative che sono state introdotte nel nostro
ordinamento, con una certa sistematicità, fin dai primi anni
novanta. Così come ha fatto la dottrina, si potrebbe, infatti,
distinguere tra agente infiltrato e agente provocatore, laddove il
primo è quello che, essendo inserito organicamente nelle forze
di polizia, pone in essere una condotta di mera osservazione o
mantenimento. Questa condotta è diretta ad intervenire in
presenza di sospetti che configurino a carico di uno o più
persone un giudizio di estrema probabilità in ordine alla
concretizzazione di un’attività di preparazione o commissione di
reati. L’agente provocatore, invece, pur essendo animato dalla medesima
volontà investigativa e dalle medesime finalità
istituzionali, pone in essere una condotta attiva, di induzione o
esecuzione di fatti penalmente illeciti, rilevanti rispetto alla loro
realizzazione.
L’elaborazione giurisprudenziale ha configurato la
legittimità della condotta dell’infiltrato in base ad
un’interpretazione estensiva della scriminante di cui all’art. 51 c.p.[
1 ]
Inizialmente l’attività dell’agente infiltrato è
stata ritenuta legittima, seppure previa circoscrizione severa dei
limiti di operatività. Di contro, risultava penalmente
responsabile, alla stregua di un concorrente ex art. 110 c.p., colui
che svolgeva un’attività concreta di ideazione o istigazione o
comunque, un’attività casualmente utile alla commissione dei
reati [2]
D’altro canto la previsione dell’art. 51 c.p., per
quanto estensivamente interpretabile, non può esulare dai due
criteri generali della necessità di agire e della proporzione
della condotta rispetto all’evento delittuoso da reprimere [3] .
Dunque, la dogmatica tradizionale [4] ha
inquadrato la problematica dell’agente provocatore nel fenomeno del
concorso di persone nel reato attribuendo ad esso il ruolo di
concorrente morale nel reato e, in particolare, il ruolo di istigatore,
anche se animato dal particolare movente che caratterizza la sua
azione, vale a dire quello di provocare un reato al fine di assicurare
i colpevoli alla giustizia. Nel fenomeno dell’agente provocatore si
verifica, quindi, un capovolgimento del legame soggettivo che lega
solitamente i concorrenti [5] , a causa della intenzione del
provocatore di denunciare o far comunque sanzionare il provocato [6].
L’accostamento della figura dell’agente
provocatore a quella dell’istigatore ha permesso di affrontare il
problema della punibilità di entrambe le figure nello stesso
modo in ossequio al principio generale di offensività del reato
ed in base al quale la condotta assume rilievo solo quando si assiste
alla concreta lesione del bene tutelato dalla norma penale ovvero alla
sua messa in pericolo. In particolare, si deve rilevare che il limite
alla punibilità dell’istigatore è rappresentato dall’art.
115, comma 3, c.p. secondo cui, qualora l’istigazione a commettere un
reato sia accolta, ma il reato non viene commesso, deve essere esclusa
la punibilità per entrambi i concorrenti, salvo eccezioni. Allo
stesso modo, l’orientamento giurisprudenziale consolidato ritiene
l’agente provocatore non punibile solo quando il suo l’intervento sia
indiretto e marginale nella ideazione ed esecuzione del fatto
risolvendosi essenzialmente in una attività di controllo, di
osservazione e di contenimento dell’altrui azione illecita; mentre
è punibile come concorrente il soggetto che svolge una concreta
attività di istigazione o comunque una attività avente
efficacia determinate o concausale (sia essa materiale o psichica)
nella progettazione e commissione dei delitti [7]. Da tali
considerazioni si può desumere l’eventualità di un
concorso anche materiale dell’agente provocatore che, se causalmente
orientato alla produzione dell’evento lesivo, comporterebbe la sua
punibilità. D’altra parte, la dottrina aveva inquadrato l’agente
provocatore in un ambito più ampio rispetto a quello del
semplice istigatore, elaborando oltre il confine del concorso psichico
nel reato e giungendo a qualificare l’agente provocatore come colui che
induce altri al reato mediante l’esplicazione di attività
provocatrice, sia di natura psichica sia materiale non per l’interesse
di cui il reato stesso rappresenta l’attuazione, ma per il costante
interesse ad ottenere la punizione del provocato. Pertanto, la figura
dell’agente provocatore potrebbe manifestarsi sia mediante il
contributo psichico, sia tramite il contributo causale materiale,
tipico o atipico in riferimento alla condotta propria del reato
realizzato e posta in essere non solo da parte dell’ufficiale di p.g.
ma anche del privato. Questo tipo di impostazione dogmatica conduce ad
inquadrare entrambe le figure, istigatore e agente provocatore, nella
struttura plurisoggettiva del reato, stabilendo tra esse un rapporto di
sussidiarietà ovvero di assorbimento nel senso che la figura
dell’istigatore sembra logicamente rientrare nell’ambito di
operatività della seconda che, però, si caratterizza per
essere più ampia della prima sia sotto il profilo della condotta
che può risolversi anche in una partecipazione materiale, sia
sotto il profilo dell’atteggiamento psichico del soggetto agente che
opera per ottenere la punizione del provocato.
Eppure questi pur imprescindibili approfondimenti
dogmatici non sempre paiono rispondenti ai nuovi strumenti di
investigazione under cover recentemente introdotti. Ciò è
particolarmente vero proprio alla luce delle modifiche legislative che
hanno espressamente introdotto cause di giustificazione speciale in
relazione a moduli di intervento investigativo che mai in passato
avrebbe potuto ricondursi negli angusti limiti della figura dell’agente
provocatore, definiti dalla giurisprudenza. Di fatto, quegli interventi
legislativi definiscono un fronte del tutto nuovo per attività
rispetto alle quali i tradizionali titoli esimenti (primo fra tutti,
quello dell’art. 51, oggetto di appropriata e consapevole riserva
legale) operano su di un piano di retroguardia, quasi come un
paracadute sempre disponibile ad aprirsi nella, ancora non ben chiara,
zona di frontiera fra illecito e attività degli organi dello
Stato. Se si vuole provare a rinvenire una comune ispirazione delle
disposizioni che, negli ultimi anni - a far tempo dal 1990, in materia
di criminalità organizzata, ma ormai non soltanto in questa
materia - hanno dato corpo di disciplina normativa alla figura
dell’agente provocatore in precedenza lasciata nella prassi
investigativa oscillare pericolosamente nel vuoto di riferimenti
positivi espressi, allora forse non è sufficiente dire che si
tratta di strumenti individuati, sotto l’onda emergenziale, per
rafforzare l’azione di contrasto di gravi fenomeni criminali,
accettandosi il rischio di pericolose compressioni della sfera delle
garanzie individuali; occorre anche dire che si tratta della traduzione
normativa della esigenza di attribuire alla polizia giudiziaria
attribuzioni investigative adeguate alle realtà dei fenomeni da
contrastare, sottraendo le prassi ai rischi di un vero e proprio
terreno minato, quale diventava, nell’esperienza concreta, un panorama
giurisprudenziale nient’affatto chiaro ed univoco e perciò
affidabile.
Le innovazioni in tema di attività sotto
copertura introdotte dal legislatore dai primi anni novanta in poi
sembrano tutte riconducibili alla scriminante indicata dall’art. 51
c.p.; in effetti, dalla disciplina normativa emerge sempre un obbligo
di agire a carico dell’ufficiale di polizia giudiziaria derivante da un
ordine dell’autorità. Appare, però, del tutto evidente
che la previsione di facoltà e poteri in capo all’agente
provocatore, di per se’ estranei ai doveri propri della funzione, oltre
che perfettamente aderenti ad alcune fattispecie penali, ma introdotti
al fine di risolvere l’evidente contrasto con l’obbligo istituzionale
di impedire che i reati vengano portati a conseguenze ulteriori,
gravante sulla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 55 c.p.p., ha
imposto al legislatore l’accortezza di prevedere limiti ben precisi
all’azione eccezionale under cover. Questi limiti rappresentano il
comune denominatore di tutte le previsioni speciali, di seguito
menzionate, che si caratterizzano per i seguenti criteri generali: 1)
la natura “propria” e speciale delle scriminanti in esame (applicabili
ai soli appartenenti alla polizia giudiziaria delle unità
specializzate – o nel caso del contrasto al terrorismo internazionale
agli ausiliari di cui questi si siano avvalsi ex art. 348, comma 4
c.p.p.); 2) la necessità che l’operazione sia eseguita
nell’ambito di un progetto investigativo più ampio e sia
autorizzata da particolari autorità, al fine di evitare
iniziative di carattere personale potenzialmente pericolose e comunque,
per evitare sovrapposizioni tra le indagini seguite dalle diverse forze
di polizia giudiziaria; 3) il nesso funzionale tra la condotta
dell’operante e l’obiettivo dell’acquisizione di elementi di prova in
ordine a reati che sono quelli espressamente previsti dalle norme che
disciplinano le singole attività.
2. L’estensione normativa
delle attività under cover. Il legislatore nazionale sulla
spinta dell’emergenza.
In questo come in altri settori, il diritto
interno è promanazione della normativa sovranazionale. Questo
dato è positivo nella misura in cui il legislatore italiano ha
dovuto rimediare alla propria inerzia in molteplici settori, ma
è negativo perché alla già storica tendenza a
legiferare in modo disorganico ed emotivo, si è aggiunta una
tendenziale assuefazione a recepire e attuare norme sovranazionali
(peraltro non sempre in modo fedele) senza minimamente curarsi di
verificare la compatibilità delle innovazioni con gli istituti
fondamentali di diritto penale sostanziale e processuale.
In Italia l’introduzione di un’ipotesi esimente
per l’agente provocatore è stata realizzata per la prima volta
con l’art. 25 della legge 26 giugno 1990, n. 162, in tema di contrasto
ai traffici di sostanze stupefacenti, che aggiungeva gli art. 84 bis e
84 ter alla legge 22 dicembre 1975, n. 685, in attuazione della
disposizione dell’art. 11 della convenzione delle Nazioni Unite contro
il traffico illecito di sostanze stupefacenti, approvata a Vienna il 20
dicembre 1988, che successivamente ratificata e resa esecutiva in
Italia con la legge 5 novembre 1990, n. 328. L’art. 11 della predetta
convenzione di Vienna introduce nuove possibilità investigative:
1) operare consegne sorvegliate di sostanze stupefacenti in ambito
internazionale; 2) intercettare e autorizzare la prosecuzione di
spedizioni illecite, per le quali sia stato convenuto di sorvegliare la
consegna, eventualmente anche dopo la sottrazione delle sostanze
stupefacenti spedite o la sostituzione di esse con altri prodotti.
Subito dopo, le norme di cui agli articoli 97 e 98 del noto D.P.R. 9
ottobre 1990, n. 309 hanno disciplinano, rispettivamente, l’acquisto
simulato di droga e le ipotesi di omissione o ritardo degli atti di
cattura, di arresto o di sequestro e la collaborazione internazionale.
Altra previsione internazionale è quella
contenuta nell’Accordo di Schengen, che, in attuazione alla convenzione
di Vienna, all’art. 73 ha operato un concreto riferimento normativo
alle sole consegne sorvegliate.
Ma non è solo nelle materie relative al
contrasto del fenomeno del traffico di stupefacenti che hanno trovato
spazio disposizioni normative calate nel contesto sostanziale del c.d.
agente provocatore. Successivamente, si è avuta un’estensione
concernente anche altri settori criminali, che è sfociata
nell’introduzione nel nostro ordinamento di diverse previsioni
operative. L’evidenza che non può non essere sottolineata
è quella della spinta emotiva ed emergenziale che ha
caratterizzato le legislazioni – spesso introdotte a colpi di decreto
legge - talvolta a discapito del sistema di garanzie individuali e
comunque, senza affrontare mai le connesse tematiche penalistiche di
carattere dogmatico e sistematico che, inevitabilmente, sono andate a
ricadere sulle spalle della giurisprudenza.
Con il d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito
nella legge 15 marzo 1991, n. 82, all’art. 7, è stata prevista
la possibilità di compiere operazioni controllate di pagamento
del riscatto quando ciò sia necessario per acquisire rilevanti
elementi probatori in ordine al delitto di sequestro di persona a scopo
di estorsione ovvero per la individuazione o cattura dei responsabili
di tale delitto. In questo caso il pubblico ministero può
richiedere al giudice l’autorizzazione a disporre di beni, denaro o
altra utilità al fine, appunto, dell’esecuzione di operazioni
controllate di pagamento del riscatto. Sempre per le medesime
finalità il pubblico ministero può, con proprio decreto
motivato, ritardare l’esecuzione o disporre che sia ritardata
l’esecuzione dei provvedimenti che applicano una misura cautelare,
dell’arresto o del fermo dell’indiziato del delitto o dei provvedimenti
di sequestro.
In seguito, con il d.l. 31 dicembre 1991, n. 419,
convertito nella legge 18 febbraio 1992, n. 172, all’art. 10, è
stata prevista la possibilità per il pubblico ministero di
ritardare con decreto motivato l’esecuzione di analoghi provvedimenti
qualora sia necessario per acquisire rilevanti elementi probatori in
ordine ai delitti di estorsione, usura, riciclaggio ed impiego di
denaro, beni o utilità di provenienza illecita ovvero per la
individuazione o cattura dei responsabili di tali delitti.
Con un’ulteriore estensione, comprensibile dal
punto di vista della necessità di rafforzare gli strumenti
investigativi per delitti di particolare gravità, difficili da
prevenire e reprimere, ma discutibile dal punto di vista organico e
sistematico, l’operatività della norma appena richiamata
è stata estesa, in forza dell’art. 10 della legge 11 agosto
2003, n. 228. Pertanto, ai reati originariamente previsti sono stati
aggiunti quelli in tema di riduzione o mantenimento in schiavitù
o servitù, prostituzione minorile, pornografia minorile,
detenzione di materiale pornografico, iniziative turistiche volte allo
sfruttamento della prostituzione minorile, tratta di persone, acquisto
e alienazione di schiavi (articoli 600, 600-bis, 600-ter, 600-quater,
600-quinquies, 601 e 602 del codice penale) e di favoreggiamento e
sfruttamento della prostituzione (legge 20 febbraio 1958 n. 75, art. 3)
e tutte le altre condotte illecite indicate in tale articolo. Ne
consegue che, sussistendo lo stesso fine e gli stessi motivi, gli
ufficiali di polizia giudiziaria possono omettere o ritardare gli atti
di propria competenza con immediato avviso al pubblico ministero e
trasmissione di motivato rapporto nelle successive quarantotto ore.
Ulteriori innovazioni sono contenute nelle
disposizioni di cui al d. l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella
legge 7 agosto 1992, n. 356, art. 12 quater, dove sono state
disciplinate le ipotesi di ricettazione di armi, riciclaggio ed impiego
di denaro illecito simulati (già parzialmente disiciplinati con
il citato d.l. n. 419/1991). In tal modo si autorizzavano gli ufficiali
di polizia giudiziaria della Direzione investigativa antimafia e dei
Servizi centrali e interprovinciali di cui all’art. 12 del d.l. n.
152/1991 a compiere in modo simulato le suddette attività
illecite al fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti
indicati. In tali casi è stata prevista, altresì, la
possibilità per l’autorità giudiziaria, di differire, con
decreto motivato, il sequestro del denaro, dei beni, delle altre
utilità riciclate o impiegate ovvero delle armi, delle munizioni
o degli esplosivi.
Successivamente, con la legge 3 agosto 1998, n.
269, recante norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della
pornografia e del turismo sessuale in danno di minori, è stata
prevista, all’art. 14, la possibilità per gli ufficiali di
polizia giudiziaria delle strutture specializzate per la repressione
dei delitti sessuali o per la tutela dei minori ovvero di quelle
istituite per il contrasto dei delitti di criminalità
organizzata di procedere all’acquisto simulato di materiale
pornografico ed alle relative attività di intermediazione
nonché di partecipare alle iniziative turistiche illecite, sul
presupposto della previa autorizzazione dell’autorità
giudiziaria ed al fine di acquisire elementi di prova in ordine ai
delitti di prostituzione minorile, pornografia minorile ed iniziative
turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile.
L’autorità giudiziaria, immediatamente informata dell’acquisto,
può differire il sequestro con decreto motivato.
Ancora più pregnante è la
possibilità per l’autorità giudiziaria di richiedere
motivatamente che personale addetto all’organo del ministero
dell’interno per la sicurezza e la regolarità dei servizi di
telecomunicazione, nell’ambito del contrasto dei delitti suddetti,
quando essi siano commessi mediante l’impiego di sistemi informatici o
mezzi di comunicazione telematica ovvero utilizzando reti di
telecomunicazione disponibili al pubblico, di utilizzare indicazioni di
copertura, anche per attivare siti nelle reti, realizzare o gestire
aree di comunicazione o scambio su reti o sistemi telematici ovvero per
partecipare ad esse.
Il predetto personale specializzato può
anche svolgere, in via telematica, le attività di acquisto
simulato, di intermediazione, di partecipazione a iniziative turistiche
illecite, attività tutte scriminate dalla norma. Inoltre,
l’autorità giudiziaria può ritardare, con decreto
motivato, l’esecuzione dei provvedimenti di cattura o sequestro quando
sia necessario per acquisire rilevanti elementi probatori in ordine ai
suddetti delitti ovvero per l’individuazione o la cattura dei
responsabili di essi.
Proprio perchè queste norme si riferiscono
a fenomeni criminali di diretto interesse della criminalità
organizzata transnazionale, in ambito internazionale è stata
particolarmente avvertita la necessità di creare disposizioni di
carattere generale, in linea con il processo di lenta ma costante
armonizzazione delle legislazioni penali e con gli obiettivi di
rafforzamento della cooperazione di polizia e giudiziaria.
In questa prospettiva ha agito il Consiglio
dell’Unione Europea che, con la recente convenzione relativa
all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri
dell’Unione Europea, sottoscritta a Bruxelles il 29 maggio 2000, ha
ampliato in misura assai rilevante e con una disciplina di valenza
pressoché generale l’area di operatività delle consegne
sorvegliate (art. 12) e delle operazioni di infiltrazione (art. 14).
Riconosciuta la grande efficacia dimostrata dalla tecnica delle
consegne sorvegliate nella lotta contro il traffico di droga ed altre
forme gravi di criminalità, il Consiglio di Europa, infatti, ha
ritenuto di fornire un quadro per la cooperazione tra Stati membri in
relazione alle consegne sorvegliate con un campo di applicazione ben
più vasto rispetto all’art. 73 dell’Accordo di Schengen,
disponendo, all’art. 12 della citata convenzione, che ciascuno Stato
membro è obbligato ad adottare le disposizioni atte ad
assicurare la possibilità di autorizzare, in caso di richiesta
di un altro Stato membro, lo svolgimento di una consegna sorvegliata
nel proprio territorio, nell’ambito di indagini penali relative a reati
per cui è prevista l’estradizione. Allo stesso modo, con l’art.
14, relativo alla disciplina delle operazioni di infiltrazione, il
Consiglio dell’Unione Europea ha previsto l’esigenza di una formazione
speciale degli agenti infiltrati e la possibilità che essi siano
utilizzati specificamente per infiltrarsi all’interno di
un’organizzazione criminale al fine di ottenere informazioni o
contribuire all’identificazione e all’arresto dei membri
dell’organizzazione.
Anche la convenzione delle Nazioni Unite contro la
criminalità organizzata transnazionale, aperta alla firma a
Palermo nel dicembre 2000 e recentemente entrata in vigore per gli
Stati che l’hanno ratificata (tra cui non figura ancora l’Italia),
ribadisce, all’art. 20, la necessità di ricorrere a tecniche
speciali di investigazione per i reati gravi transnazionali indicati
negli art. 2 e 3 della stessa Convenzione.
Orbene, malgrado le recenti difficoltà
italiane a recepire in modo fedele le disposizioni convenzionali ovvero
a ratificarne altre, un certo indirizzo verso ipotesi più
generali di operazioni under cover sembra cogliersi nella normativa
interna successiva.
Infatti, con il d. l. 18 ottobre 2001, n. 374,
convertito nella legge 15 dicembre 2001, n. 438, contenente
disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale,
è stata prevista, all’art. 4, la non punibilità degli
ufficiali di polizia giudiziaria che, nel corso di specifiche
operazioni di polizia, al solo fine di acquisire elementi di prova in
ordine ai delitti commessi per finalità di terrorismo, anche per
interposta persona, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano
denaro, armi, documenti, stupefacenti, beni ovvero cose che sono
oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato, o
altrimenti ostacolano l’individuazione della provenienza o ne
consentono l’impiego. Agli stessi ufficiali, nonché agli agenti
di polizia giudiziaria, è consentito di utilizzare documenti,
identità o indicazioni di copertura anche per attivare o entrare
in contatto con soggetti e siti nelle reti di comunicazione,
informandone il pubblico ministero al più presto e comunque,
entro le quarantotto ore successive all’inizio delle attività.
Pertanto, il legislatore non si è limitato a prevedere la
possibilità di utilizzare indicazioni di copertura anche per
attivare sit nelle reti di comunicazione, ma, da un lato, ha
espressamente previsto l’utilizzazione di documenti ed identità
di copertura, da un altro, ha elencato alcuni degli oggetti che possono
essere acquistati, ricevuti, sostituiti o occultati in via simulata e
infine, ha esteso espressamente la non punibilità agli agenti di
polizia giudiziaria (che abbiano agito nell’ambito delle direttive
impartite dagli ufficiali).
Come già anticipato in precedenza, infine,
con la legge 11 agosto 2003, n. 228, contenente misure contro la tratta
di persone è stata estesa (art. 10) ai delitti di riduzione o
mantenimento in schiavitù o servitù, prostituzione
minorile, pornografia minorile, detenzione di materiale pornografico,
iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione
minorile, tratta di persone, acquisto e alienazione di schiavi
(articoli 600, 600 bis, 600 ter, 600 quater, 600 quinquies, 601 e 602
del codice penale) e di induzione, sfruttamento e favoreggiamento della
prostituzione (art. 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75) la
possibilità per il pubblico ministero (già contenuta
nell’art. 10 del d. l. 31 dicembre 1991, n. 419 e riguardante i delitti
di estorsione, usura, riciclaggio ed impiego di proventi illeciti) di
ritardare l’esecuzione di provvedimenti che applicano una misura
cautelare o di arresto, fermo o sequestro e, per gli ufficiali di
polizia giudiziaria, di omettere o ritardare gli atti di propria
competenza, qualora necessario per acquisire rilevanti elementi
probatori in ordine ai suddetti delitti, ovvero per la individuazione o
cattura dei responsabili di tali delitti. Inoltre è stata estesa
ai delitti previsti dal libro II, titolo XII, capo III, sezione I, del
codice penale (i delitti contro la personalità individuale) ed a
quelli di cui all’art. 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75, la
disciplina dell’attività sotto copertura in tema di terrorismo.
Inoltre, con il decreto legge 14 settembre 2004, n. 241, convertito con
modificazioni nella legge 12 novembre 2004, n. 271, questa disciplina
è stata poi ulteriormente estesa (art. 1 ter, comma 1, lett. e)
ai delitti previsti dall’art. 12, comma 3, del Dlgs 25 luglio 1998, n.
286, a quelli, cioè, di favoreggiamento dell’immigrazione
irregolare con finalità di profitto.
3. I limiti di
utilizzabilità degli elementi probatori acquisiti.
L’orientamento estensivo della terza sezione della Corte di Cassazione.
La Corte di cassazione, sezione III, in data 17
febbraio-11 maggio 2005 emetteva la sentenza n. 17662, imp. Favalli,
con cui si pronunciava nei termini riassumibili nella seguente massima:
La legittimità e liceità
dell’attività di contrasto «sotto copertura» deve
essere valutata ex ante, in relazione al momento in cui tale
attività è disposta dall’autorità giudiziaria e
non con riguardo all’esito dell’investigazione. Ciò significa
che se, quando l’autorità giudiziaria ha autorizzato gli
eccezionali strumenti di investigazione che consentono alla polizia
giudiziaria di procedere «sotto copertura» ad azioni
simulate (nella specie, riconducibili all’attività di contrasto
prevista dall’articolo 14 della legge 3 agosto 1998 n. 269, in materia
di prostituzione e pornografia minorile), esistevano già indizi
di uno dei gravi reati tassativamente indicati nella norma quali
condizione per l’attivazione dell’azione simulata, i mezzi di prova
così acquisiti, sono legittimi e utilizzabili ex articolo 191
c.p.p. anche se riguardino reati diversi e meno gravi di quelli
ipotizzati.
Nel caso concreto, dalle premesse descritte nella
massima, la Corte, in relazione a un’attività sotto copertura
autorizzata ex art. 14 della legge 269/1998, sul presupposto della
sussistenza di gravi indizi in ordine ai reati di cui all’articolo 600
ter, commi 1, 2 e 3, c.p., ha ritenuto legittima l’acquisizione di
elementi di prova per il diverso e meno grave reato di cui al comma 4
dello stesso articolo 600 ter c.p..
Uno dei delicati problemi esistenti in materia di
attività investigative sotto copertura è dato dalla
rilevanza processuale attribuibile alle diverse tipologie di elementi
probatori acquisiti.
Il caso preso in considerazione dalla recente
sentenza della Suprema Corte è altamente esemplificativo. Ci si
è chiesto, con alterne soluzioni, se gli elementi probatori
acquisiti nel corso di un’attività under cover siano
utilizzabili soltanto in relazione a reati del tipo di quelli per i
quali tali attività sono consentite oppure se, fermi restando i
necessari provvedimenti autorizzatori, l’utilizzabilità vada
estesa anche ad altri reati, che esulano dal novero previsto dal
legislatore con le norme eccezionali.
La vicenda si riferisce ad un caso invero molto
frequente nella pratica, vale a dire l’ipotesi in cui, compiendo
attività di indagine per reprimere i reati di cui all’art. 600
ter, commi 1, 2 e 3 c.p., si riscontrino anche gli elementi del reato
meno grave di cui all’art. 600 ter, comma 4 c.p., per cui non è
previsto il compimento di attività under cover, ai sensi
dell’art. 14 della legge 269/1998.
Nel caso specifico, la Suprema Corte ha ritenuto
che l'organo di polizia competente sia stato legittimamente attivato
dal pubblico ministero per scoprire uno dei reati tassativamente
indicati nell'art. 14 (lo sfruttamento di minori per realizzare
esibizioni pornografiche o produrre materiali pornografici, il
commercio, la distribuzione o pubblicizzazione dei materiali
pornografici in tal modo prodotti).
Il fatto del successivo accertamento di reati
minori, non inclusi nella predetta indicazione tassativa (nel caso di
specie, la singola cessione, anche gratuita, di materiale pornografico
realizzato attraverso lo sfruttamento di minori, di cui al quarto comma
dell'art. 600 ter c. p.) non può essere considerato ostativo
all’utilizzabilità dei relativi esiti investigativi.
Infatti, afferma la Corte, la legittimità e
liceità dell'attività di contrasto, anche sotto
copertura, deve essere valutata ex ante, in relazione al momento in cui
tale attività è disposta dall'autorità giudiziaria
e non con riguardo all'esito dell'investigazione.
Ne consegue che se, quando l'autorità
giudiziaria ha autorizzato gli eccezionali strumenti di investigazione
di cui all'art. 14, erano già presenti gli indizi di uno dei
gravi reati tassativamente indicati nella stessa norma, i mezzi di
prova così acquisiti sono legittimi e utilizzabili ex art. 191
c. p.p., anche se riguardino reati diversi e meno gravi di quelli
ipotizzati.
In sostanza, ritenuto il grave allarme sociale
legato al fenomeno della prostituzione e della pornografia minorile, la
polizia giudiziaria è autorizzata a svolgere un ruolo di vero e
proprio agente provocatore, secondo le caratteristiche sopra descritte,
per alcuni più gravi reati, in via del tutto eccezionale
rispetto ai principi dell'ordinamento processuale in tema di
acquisizione delle prove.
Tuttavia, se nel corso di questa attività
eccezionale, ma autorizzata, la polizia giudiziaria accerta la
commissione di reati distinti e meno gravi, essa, in ossequio all'art.
55 c.p.p. e allo stesso principio dell'obbligatorietà
dell'azione penale di cui all'art. 112 Cost. (in relazione al secondo
comma dell'art. 55 c. p.p.), non può sottrarsi al suo compito
istituzionale di svolgere indagini e di assicurare le fonti di prova
anche in relazione ai reati diversi da quelli per cui era stata
specificamente autorizzata.
La conclusione appare logica ove si consideri
quanto sia incerto il confine tra il reato ipotizzato inizialmente e
quello successivamente scoperto. La corretta identificazione del reato
non è un compito effettuabile sempre in fase investigativa;
molto spesso solo all’esito del giudizio ed in sentenza è
possibile dirimere dubbi circa la sussistenza di un reato in luogo di
un altro (la possibilità offerta al giudice dall’art. 521 c.p.p.
ne è riprova lampante). Pertanto, ritenere che le prove raccolte
con l'attività di contrasto non siano più utilizzabili
solo perché il fatto accertato è diversamente qualificato
dal giudice sarebbe del tutto irrazionale.
Con questi concetti essenziali, la terza sezione
della Suprema Corte (l’ultima in termini cronologici) ha ritenuto di
risolvere un perdurante contrasto giurisprudenziale sorto sulla
materia, senza sapere che, contemporaneamente, altro collegio della
medesima sezione decideva in senso opposto.
Infatti, diverse sentenze hanno precedentemente
statuito - proprio su fatti analoghi a quello di cui alla sentenza
Favalli - che, ai sensi dell'art. 191 c. p.p. non possono essere
utilizzate le prove acquisite con gli eccezionali strumenti
investigativi previsti dall'art. 14 della legge 269/1998, quando esse
si riferiscano al reato di cessione di materiale pedopornografico (di
cui all'art. 600 ter, comma 4, c.p.) o a quello di detenzione di
materiale pedopornografico (di cui all'art. 600 quater c.p.), che non
sono inclusi nella indicazione tassativa contenuta nella predetta norma
eccezionale[8] .
Altre pronunce, invece, hanno sostenuto con
argomentazioni diverse che la mancanza dei requisiti sostanziali e
processuali richiesti dall'art. 14 rende inutilizzabili le prove
acquisite, ma non impedisce la ritualità e legittimità
del sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato: e
ciò o perché le risultanze inutilizzabili a fini
probatori costituiscono pur sempre notitia criminis sulla quale
è possibile svolgere ulteriori indagini, acquisire nuovi
elementi probatori e disporre misure cautelari [9] o
perché il sequestro è comunque atto dovuto[10]. In fondo,
quest’ultima considerazione è comprensibile se, tempo addietro,
la Suprema Corte aveva già avuto modo di affermare – a sezioni
unite - che, in caso di perquisizione illegittima e quindi nulla, il
sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato ex art.
253 c.p.p., costituendo un atto dovuto, sarebbe comunque una prova
utilizzabile, non rilevando il modo in cui si sia pervenuti
all’esecuzione del sequestro [11].
Gli argomenti dell’impostazione avversa non sempre
sono apparsi convincenti, anche se pure la sentenza Favalli, il cui il
ragionamento pare essere di esemplare linearità, lascia
irrisolti dubbi di fondo. Non sono tanto le considerazioni relative
alla doverosità di atti di polizia giudiziaria, pur se non
autorizzati o autorizzabili, ad entrare in gioco, così come non
occorre neanche compiere interpretazioni analogiche della disciplina
eccezionale prevista dall'art. 14 L. 269/98 che consentano l’estensione
ad altre ipotesi normative di attività under cover, così
come ricordato da alcune pronunce restrittive.
La risoluzione del dubbio deve essere fondata
sull’anticipazione del giudizio circa la ricorrenza dei reati
tassativamente elencati – così come vuole il dettato normativo -
al momento in cui l’attività investigativa eccezionale è
autorizzata.
Quello è il momento in cui si dovrebbe
riscontrare l’esistenza della notitia criminis relativa ai reati per
cui è permesso compiere attività sotto copertura e non
certo quello in cui siano noti gli esiti della investigazione.
L’orientamento più restrittivo parrebbe
viziato da un eccesso di formalismo che si risolve a discapito anche
della coerenza logica delle conclusioni, che diverrebbero paradossali,
nella misura in cui si pretenderebbe di ancorare la legittimità
delle attività investigative all’effettiva sussistenza dei reati
presupposto, circostanza che soltanto una sentenza di condanna potrebbe
certificare (e neanche in tutti i casi, basti pensare, ad esempio, alla
possibile estinzione del reato ovvero all’esistenza di cause di non
punibilità ex art. 129 c.p.p.).
Inoltre, un siffatto orientamento restrittivo,
dimenticherebbe quelli che sono i compiti e i doveri della polizia
giudiziaria che, qualora venisse ad accertare, nel corso di un'azione
simulata finalizzata a reprimere e contrastare taluni gravi reati,
reati distinti e meno gravi, non potrebbe certamente sottrarsi al suo
compito istituzionale di svolgere indagini, di compiere atti rilevanti
quali quelli di cui agli art. 380 e 381 c.p.p. e di assicurare le fonti
di prova anche in relazione ai reati diversi, in ossequio all'art. 55
c.p.p. e, indirettamente, allo stesso principio
dell'obbligatorietà dell'azione penale di cui all'articolo 112
della Costituzione (in relazione allo stesso art. 55, comma 2 c.p.p.).
Se questa è la posizione assunta dalla
Suprema Corte con la sentenza Favalli, non si può negare
l’esistenza del problema degli argini di contenimento a cui devono
essere sottoposti questi strumenti investigativi eccezionali,
particolarmente invasivi, che possono inevitabilmente trasformarsi in
una deminutio del tasso di libertà diffusa di una
società. Pertanto, si deve chiarire quali siano le conseguenze
processuali che scaturiscono quando, attraverso il giudizio ex ante di
verifica della sussistenza dei reati tipici, si valutasse che
l'operazione è stata attivata in difetto del presupposto
finalistico richiesto dalla norma (il perseguimento dei reati in
materia di stupefacenti, nell'ipotesi di cui all'articolo 97 del Dpr
309/1990; dei reati di cui agli articoli 600 bis, comma 1, 600 ter,
commi 1, 2 e 3, e 600 quinquies c.p., nell'ipotesi di cui all'articolo
14 della legge 269/1998, la tratta delle persone e lo sfruttamento
della prostituzione nelle ipotesi di cui all’art. 10 della L. 228/2003,
il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel caso del d.l.
241/2004, ecc.).
In sostanza, non si può negare l’esistenza
di seri problemi di legittimità dell'operazione stessa, con
gravi riflessi di natura disciplinare, penale e anche processuale.
Non vi è dubbio che un’eventuale
attivazione dell’operazione sotto copertura in assenza dei requisiti
normativi può determinare la responsabilità disciplinare
degli operanti.
Inoltre, la probabile illegittimità
dell’attività under cover porrebbe seri dubbi circa
l’applicabilità della scriminante speciale, con conseguente
possibile responsabilità penale dell’infiltrato o dell’agente
provocatore. Resterebbe a disposizione dell’operante soltanto il
salvagente dell’art. 51 c.p., ma sono stati già accennati i
limiti angusti con cui questa soluzione è ammessa dalla
giurisprudenza.
Ne consegue che soltanto se l'intervento
dell'agente provocatore sia indiretto e marginale nell'ideazione ed
esecuzione del fatto, risolvendosi essenzialmente in un'attività
di controllo, di osservazione e di contenimento dell'altrui azione
illecita, sarebbe possibile concludere per la giustificazione del fatto
altrimenti illecito.
Di contro, l’operante che abbia svolto una
concreta attività di istigazione o, comunque, un'attività
avente efficacia determinante o concausale, materiale o psichica, nella
progettazione e commissione dei delitti sarebbe punibile, come
concorrente nel reato.
Dal punto di vista dell’eventuale
utilizzabilità processuale del materiale probatorio acquisito
nell’ambito dell’attività irregolare, consentita in forza
dell’orientamento della sentenza Favalli, si deve sottolineare come il
principio di base da far valere continui ad essere quello di cui
all’art. 191 c.p.p.. A questo principio generale, però, sostiene
la sentenza Favalli, si devono comunque porre alcune eccezioni.
In primo luogo, deve osservarsi che
l'inutilizzabilità come prova nel processo, non esclude, in
vero, che gli esiti dell'operazione simulata anomala possano valere
quale notitia criminis[12] , utile per l'inizio di un diverso
procedimento e per l' espletamento di accertamenti volti ad acquisire,
a conforto, nuovi (stavolta utilizzabili) elementi di prova ( si
è già accennato al rilievo da attribuire all’art. 55
c.p.p. e 112 Cost.)
In secondo luogo, deve escludersi che il principio
di inutilizzabilità degli elementi di prova possa riguardare
l'eventuale sequestro del corpo di reato o di cose pertinenti al reato
(art. 253 e 354 c.p.p.).
Allo stesso modo deve concludersi relativamente
all'eventuale provvedimento restrittivo a carico del responsabile del
reato (arresto in flagranza; fermo), non potendosene ritenere preclusa
l'adozione, nella ricorrenza dei presupposti di legge, per il solo
fatto che gli estremi di reità siano emersi nel corso di
un'operazione simulata irregolare.
Anche in tale evenienza, diversamente opinando, si
finirebbe con il patrocinare una soluzione in contrasto con il
già rilevato obbligo per la polizia giudiziaria di accertare gli
estremi di reità e di procedere alle relative acquisizioni (art.
55 c.p.p.).
Ad ulteriore sostegno della validità
dell’orientamento giurisprudenziale che, in tema di
utilizzabilità delle prove, adotta l’impostazione meno
restrittiva si può portare la riflessione che a partire dal 2003
il legislatore in tema di attività sotto copertura ha operato
una sistematica estensione dei reati tipici, in modo tale da risolvere
i dubbi ed attribuire una maggiore portata operativa alle
attività medesime. In altri termini, l’esperienza ha ampiamente
dimostrato che, in caso di indagini per i reati di cui agli art. 600
bis, comma 1, 600 ter, commi 1, 2 e 3, e 600 quinquies c.p., è
altamente probabile imbattersi nei reati di cui agli art. 600 ter comma
4 ovvero 600 quater c.p.. Allo stesso modo, anche in altri ambiti vale
la stessa massima di esperienza; infatti, con la legge 228/2003 si
possono compiere attività under cover, previste dall'art. 4,
commi 1, 2, 5, 6 e 7, del decreto legge 18/10/2001 n. 374, convertito
in legge 15/12/2001 n. 438 (disposizioni urgenti per contrastare il
terrorismo internazionale) non solo per perseguire i reati di cui agli
artt. 600, 601 e 602 c.p., ma anche per tutti quelli lesivi della
personalità individuale, oltre che per i reati di cui all’art. 3
L. 75/1958. Siffatte attività investigative sono state
indirizzata verso le manifestazioni più gravi di un determinato
fenomeno criminale, ma con l’espressa previsione di garantirne
l’operatività e la legittimità anche con riferimento ai
reati “minori”, più frequentemente connessi nella pratica.
La Suprema Corte ha anche espressamente attribuito
efficacia generale alle proprie argomentazioni, nel senso
dell’estensione a tutte le ipotesi di attività sotto copertura e
non solo a quella specificamente presa in considerazione (art. 14 L.
269/1998).
4. L’orientamento
restrittivo. Inutilizzabilità delle prove raccolte nell’ambito
dell’attività under cover non autorizzata.
Praticamente in contemporanea con la sentenza
Favalli (è irrilevante soffermarsi su quale sia stata depositata
pochi giorni prima, per quanto qui interessa), la medesima sezione
della Corte di Cassazione emetteva la sentenza 28 gennaio-13 aprile
2005 n. 13501 (imp. Gallotti) di segno diametralmente opposto rispetto
alla sentenza Favalli.
A questo punto pare che il contrasto
giurisprudenziale abbia assunto dimensioni notevoli (inconsapevolmente,
poiché non vi sono citazioni reciproche - né vi potevano
essere - nei due testi giudiziari) e debba, quindi, essere risolto,
poiché sono in gioco diritti fondamentali ed esigenze repressive
in ordine a gravi reati di particolare allarme sociale.
Sinteticamente la sentenza Gallotti può
riassumersi nella massima che segue:
Per acquisire elementi probatori in ordine ai
delitti di cui agli art. 600 bis, comma 1, all’articolo 600 ter, commi
1, 2 e 3, all’art. 600 quinquies c.p. è possibile agli ufficiali
di polizia giudiziaria o agli organi ministeriali specializzati
svolgere attività sotto copertura solo previa autorizzazione o
previa richiesta motivata dell’autorità giudiziaria. Per
investigare sugli altri delitti di cui al Libro II, titolo XII, capo
III, sezione I del codice penale è consentito agli ufficiali
specializzati di polizia giudiziaria svolgere attività di
copertura qualora questa sia disposta dai vertici dei corpi di
appartenenza e previamente comunicata al pubblico ministero dallo
stesso vertice che la dispone. Sono pertanto inutilizzabili le prove
acquisite dalla polizia giudiziaria nel corso di attività
sottocopertura durante la quale gli agenti hanno acquistato materiale
pedopornografico, di propria iniziativa, senza acquisire previamente la
necessaria autorizzazione dell’autorità giudiziaria, e
perciò in violazione dell’art. 14 della legge 269/1998 e
dell’art. 600 quater c.p.
Anche in questo caso la materia del contendere
è fornita dall’art. 14 L. 269/98 che, per le sue
specificità, si presta a particolari approfondimenti. Tuttavia,
così come la sentenza Favalli ha elaborato argomenti applicabili
alla generalità delle misure under cover, allo stesso modo
è avvenuto con la sentenza Gallotti.
In quest’ultima, però, il Collegio non ha
ritenuto di specificare i confini della propria pronuncia, lasciando
intendere che debba essere considerata prova illegittimamente acquisita
e, quindi, inutilizzabile da un lato quella inerente ai reati tipici
per cui non vi era stata specifica autorizzazione ex ante, dall’altro
quella (di cui alla citata sentenza Favalli) in cui l’attività
under cover sia stata regolarmente autorizzata, ma le prove raccolte si
riferiscano a reati diversi da quelli tipici, sia per la commissione
anche di tali reati diversi, sia per la derubricazione ex post delle
condotte criminose che, ex ante, avevano legittimato l’attività
sotto copertura.
Questa lettura della sentenza Gallotti si impone,
anche in virtù delle considerazioni volte a confutare l’idea,
propria anche delle SS.UU. con la citata sentenza 27 marzo 1996, Sala,
che l’irregolarità dell’attività investigativa non infici
la genuinità del sequestro del corpo del reato o delle cose
pertinenti al reato, vista la doverosità dell’atto di polizia
giudiziaria da compiere. Questo meccanismo è stato ritenuto
elusivo dei meccanismi di garanzia dell’art. 14 L. 269/98, sanzionati
dall’art. 191 c.p.p.. L’orientamento restrittivo ritiene superata
l’interpretazione della sentenza Sala, perché questa da un lato
trascurerebbe che il presupposto di legittimità del sequestro
è il fumus commissi delicti, oltre al rapporto pertinenziale tra
cosa sequestrata e reato, dall’altro ignorerebbe che non si può
affermare la sussistenza di detto fumus sulla base di un risultato di
indagine inutilizzabile.
Aggiunge la Corte che il diverso orientamento
(fondato sul principio male captum bene retentum e molto lontano
dall’antitetica impostazione dei sistemi di common law) in base al
quale giungere a configurare un’autonomia ontologica degli atti di
indagine o processuali, finirebbe per vanificare del tutto il divieto
di utilizzazione probatoria di cui all’art. 191 c.p.p.. In questo
senso, deve essere respinta la conclusione che perviene a distinguere
tra inutilizzabilità ai fini della responsabilità penale
e inutilizzabilità ai fini di misure cautelari (in questo caso
reali)[13] .
Il principio affermato in questa sentenza è
ulteriore rispetto agli argomenti delle altre pronunce restrittive ed
è dirompente nella misura in cui mette in discussione ogni
precedente arresto giurisprudenziale che, in presenza di atti o
attività inutilizzabili (si pensi, ad esempio, alla
utilizzazione extraprocedimentale delle intercettazioni relative a
delitti diversi da quelli di cui all’art. 270 c.p.p.), valorizzava,
comunque, la natura di notitia criminis[14] . In effetti, a sommesso
avviso di scrive, una siffatta conclusione avrebbe forse meritato una
più diffusa motivazione, in grado di definire le possibili
opzioni investigative, una volta verificata l’illegittimità del
sequestro ovvero delle acquisizioni probatorie. Inoltre, la reciproca
inconsapevolezza tra le due sentenze qui menzionate ha determinato un
contrasto “al buio”, in cui la sentenza estensiva, per forza di cose,
non ha considerato il giudizio tranchant della sentenza Gallotti,
mentre quest’ultima non ha potuto confutare nulla delle più
estese argomentazioni, sopra riferite, della sentenza Favalli.
Ci si chiede, ad esempio, portando il ragionamento
alle estreme conseguenze, se almeno la vicenda regressiva conseguente
alla declaratoria di inutilizzabilità non riporti il
procedimento ad una base utile, quale quella della iscrizione della
notizia di reato, ex art. 335 c.p.p.. Certamente questa opzione sarebbe
consentita quando le attività acquisitive irregolari a carico
dell’indagato abbiano riguardato diverse fattispecie, comunque
rientranti nelle previsioni degli artt. 600 bis, 600 ter, commi 1, 2 e
3 e 600 quinquies c.p., quando evidenzino il coinvolgimento di nuovi e
diversi soggetti, o quando accertino la commissione di reati di indole
diversa [15] .
In assenza di adeguata illustrazione da parte
della sentenza Gallotti, appare ragionevole ritenere che residui
comunque uno spazio minimo di utilizzabilità delle risultanze
irregolarmente acquisite, nel senso di una rilevanza meramente
investigativa, che possa dare origine, previa iscrizione nei registri,
ad un nuovo procedimento penale, preclusa ogni utilizzazione
probatoria, anche ai soli fini cautelari.
Orbene, al di fuori di queste (notevoli)
incertezze interpretative e pratiche, le conclusioni della sentenza
Gallotti sono logicamente congrue, considerato che l’ordinamento
riconoscere efficacia scriminante a condotte che costituirebbero reato
(quelle poste in essere dall’agente provocatore) a patto che le stesse
siano compiute nel rispetto dei limiti previsti dalla norma eccezionale
che le disciplina, mentre espone l’operante a probabili conseguenze
penali e disciplinari in caso di attività under cover
illegittima. Ebbene, in questa seconda ipotesi risulterebbe fin troppo
evidente l’aporia di un risultato probatorio proveniente da
un’attività illecita (che costituisce reato), utilizzabile nel
procedimento a carico dell’indagato.
Tutte le considerazioni fin qui spiegate,
sollecitate dalle due recenti sentenze contrapposte, lasciano aperti
enormi interrogativi circa il solco scavato dal sistema della
normazione d’emergenza in un campo così delicato. Il margine
labile tra liceità ed illiceità, tra punibilità e
non punibilità, il rapporto conflittuale tra garanzie
costituzionali ed esigenze repressive (sopratutto con riferimento a
condotte criminali di derivazione transnazionale e di pertinenza della
criminalità organizzata), la relazione tra legittimità
procedimentale ed utilizzabilità probatoria, sono tutte
tematiche che non possono essere affidate ad interventi occasionali ed
emozionali, che non tengano conto delle esigenze dogmatiche e
sistematiche del diritto sostanziale e processuale. Ne’ può
essere sempre la giurisprudenza di legittimità a porre rimedi a
lacune di tipo normativo
La conseguenza minima è quella del
contrasto giurisprudenziale. Quella più rilevante è la
perdurante incertezza del diritto penale, che un intervento delle
Sezioni Unite può soltanto alleviare.
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